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Per gli amici della classe 1949 Dueville (VI)

Loano 12 – 14 aprile 2019

 Noi di settant’anni abbiamo vissuto un periodo di grandi trasformazioni. Trasformazioni e cambiamenti nella vita quotidiana, nel  cibo, nella casa, negli spostamenti, nelle comunicazioni, nelle relazioni. Siamo stati coinvolti e abbiamo partecipato a tutti questi mutamenti.

Abbiamo anche vissuto settanta anni di pace. Mio nonno ha fatto la prima guerra mondiale contro tedeschi e austriaci; mio padre, partigiano, ha combattuto contro i tedeschi. Io invece sono amico di famiglie tedesche di Shondorf.

Quello che abbiamo visto e vissuto, è nella nostra memoria. E’ un patrimonio da conservare e da tramandare.  Con semplicità e chiarezza,  cerchiamo di trasmettere  ai nostri nipoti o ai ragazzi di oggi la nostra testimonianza di quello che abbiamo visto e  vissuto attraverso questi settanta anni: dalla civiltà contadina industriale alla società tecnologica, connessa e in rete, di oggi.

 

Le scuole

Mio nonno nacque quando il Veneto diventò Italia. Ha frequentato due classi la prima inferiore  e la prima superiore. Mio padre frequentò i cinque anni della scuola elementare.  E’ solo 100 anni, da circa tre generazioni, che si è diffusa la scuola pubblica in Italia.

Fino al 1920, quasi la metà delle bambine e bambini che frequentavano la scuola primaria, venivano bocciati. Molti non andavano a scuola. E non erano i bambini che non volevano andarci, non c’erano aule sufficienti. Se tutti andavano a scuola non c’era lo spazio materiale per contenerli. Neanche in piedi. All’inizi del Novecento una maestra di Dueville scriveva: “.. ebbene la mia scuola ha bisogno sommo di banchi, giacché quel girar or qua or là le fanciulle perché possano sedersi per scrivere un pochino, rompe la disciplina, distrugge una gran parte del profitto.

Nelle classi c’erano oltre 60 alunni. A Dueville si decise nel 1906 di sdoppiare la prima maschile con 97 bambini. C’erano altre tre classi con più di 70 alunni.

Solamente nel 1911 si giunse ad una definitiva decisione di dare a Dueville che contava circa 6.000 abitanti, un fabbricato che riuscisse “bello e grandioso fornito di tutte le comodità oggidì richieste. Dove venisse impartita l’educazione della mente e del cuore, dove il fanciullo avrebbe imparato ad essere integerrimo cittadino, utile alla famiglia, alla patria, alla società.”

Si acquistò il terreno che dalla ghiacciaia comunale si protendeva verso via Belvedere. Il progetto fu affidato all’ingegnere Zuccato di Thiene. La ditta Tagliaferro e Poncato di Dueville fu incaricata dell’esecuzione dei lavori dando in questo modo occupazione per tutta la stagione invernale a circa 50 operai del paese.

L’edificio fu terminato nell’ottobre del 1915, pur con le difficoltà causate dalla guerra. La spesa effettiva fu di 134.590 lire, comprensiva dell’impianto di riscaldamento e dell’arredamento. Lo stato concorse con un terzo della spesa.

Le scuole nuove non poterono però ospitare subito i bambini. Nel 1916 fu installato un ospedale da campo inglese con 230 posti letto.

 

Ricordi

La maestra Elisa Tura

Abitava nella barchessa, vicino alla chiesa. Era la moglie del segretario comunale. E’ stata la mia maestra per tutti i cinque anni delle elementari. La ricordo gentile, non alzava la voce, ma si faceva ascoltare. La capoclasse era la  Carmen Seganfredo. Reginato era molto bravo a disegnare. La maestra lo faceva disegnare alla lavagna, con i gessetti colorati e noi, nei banchi di legno,  copiavamo. Mi ricordo un bel disegno della presa della Bastiglia. C’erano i compagni che abitavano in centro, Carollo, Billo, Canella, Manunzato, Marenda, Pigato, Rosignoli,  e altri che abitavano in campagna. Chi abitava lontano, veniva in bicicletta.

Alcuni ricordi: Tema: l’animale preferito: Il mio gatto è un ramengo come me, scriveva Ferdinado.

La maestra affidava alla  Carmen il compito di dare tutti i giorni a Francesco Rigon i soldi per comprare il Giornale di Vicenza. Francesco lo portava poi a casa della maestra. La nostra classe si scontrava qualche volte con la classe del maestro Martini, nel cortile a sachetà, senza particolari motivi. Una mattina la maestra ha fatto parlare i capi, Marenda,  Pigato e voleva capire come mai. Per un po’ la battaglia cessò.

Altri maestri: Francesco Martini, Caterina Tuzzo, Clelia Moretti, Albiero, De Rosso, le sorelle Fusato, Arnaldi, Radovich, ecc.

Per fortuna non avevamo tanti compiti da fare a casa. Al pomeriggio eravamo liberi di giocare insieme ai coetanei vicini. I bambini non erano impegnati in tante attività come i bambini di oggi.

 

Fionde, querciti e bussolòti

Querciti = si prendevano le capsule dei tappi corona con cui si  chiudevano le bottiglie di birra o di aranciata. Si andava a cercarli nelle osterie perché in casa non c’erano le bottiglie con il tappo corona. Con un martello si appiattivano le punte ed il tappo diventava un dischetto piatto. Si giocava come se fossero monete. La parte su cui era impresso la marca della bibita, era testa.

Pai alta, aqua e fògo = si aggiungeva anche fògheto, per indicare l’oggetto abbastanza vicino.

  • Arco = si costruiva prevalentemente con i rami della sanguanéla, sottili, elastici e resistenti.
  • Bussolòti = si metteva un barattolo al centro di un cerchio, segnato per terra, di 1 metro di diametro, circa. Un ragazzo doveva restare a guardia del barattolo, doveva stare soto. Gli altri ragazzi , ad una distanza prestabilita, di circa due o tre metri, cercavano di abbattere e far rotolare il barattolo, il più lontano possibile. Per abbatterlo si usavano mezzi mattoni o delle scaje, pezzi di laterizi (pignate, blocchi, ecc.), o qualche sasso che permettesse una traiettoria precisa. Se non si colpiva il barattolo, bisognava lasciare il proprio mattone o sasso, nel posto in cui si fermava e non si poteva più tirare. Quando invece il barattolo veniva abbattuto, chi era soto, doveva raccoglierlo e rimetterlo nella posizione iniziale. Nel frattempo il giocatore che aveva tirato e gli altri che non avevano più i loro strumenti per colpire, potevano velocemente raccoglierli e ritornare al loro posto. Se intanto chi era soto rincorreva chi scappava e lo toccava, chi veniva preso, andava soto.

 

La fionda

  • Una delle attività dei ragazzi era costruire la fionda. Si cercava fra i cespugli del sanguinello i rami adatti per fare la forcela o maneta. Si cercava di dare la forma voluta, legando i tre rametti e si mettevano nel forno per farli seccare. Dalla camera d’aria delle biciclette si recuperavano gli elastici. Qualche volta si comperavano gli elastici di caucciù molto più resistenti. La coramela era di cuoio. Si tagliava la lenguela delle scarpe vecchie che si buttavano. Qualche volta, rischiando,  si tagliava la lingua anche da quelle che si usavano, provocando  l’ira del possessore.

Uno dei giochi proibiti era centrare le cicare dei pali della luce. O andare a caccia di qualche uccellino.

 

  • Giochi per bambine:
  • Bala a muro = si giocava cantando:

Muovermi, senza muovermi, senza ridere, con un piede, con una mano, dà battere, zigo zago, violino, bacino,

tocco terra, angiolo

  • Briscolo = con la corda della lissia o con la corda con cui si appendeva il maiale, quando si uccideva, si poteva fare un briscolo. Si appendeva la corda a qualche trave del portico. La corda si poteva rovinare, allora era un gioco non sempre disponibile, anche se richiesto dai bambini.
  • Dindolo o briscolo = – due bambini, una tavola, un tronco che fungeva da fulcro.

in mancanza di una tavola, il carretto diventava un dindolo. Un ragazzo seduto davanti, vicino alle stanghe e uno dietro. Le ruote erano il fulcro.

  • Marinaio = gioco di bambine. Si formava un quadrato con quattro bambine. C’era un percorso da fare lungo le diagonali e i lati, alternando le compagne che si prendevano sottobraccio. Si cantava:

Oh marinaio, marinaio della marina, porti le chiavi dell’oro e dell’argento ……

 

Vita religiosa

  • aqua benedeta = acqua benedetta che si teneva in casa e si adoperava per farsi il segno della croce.
  • Benedir le case = il parroco girava per il paese a benedire tutte le case.
  • Benedir le cro$e = il prete faceva il giro del paese e si fermava in alcuni punti stabiliti. In questi c’erano i contadini che portavano delle croci, fatte con i rami di salice e addobbate con fiori. Le croci, dopo la benedizione, si mettevano nei campi, a protezione dei raccolti.
  • Questua, quartese, ogni parrocchia aveva il territorio dove poter andare a raccogliere la quarantesima parte dei prodotti della terra. I prodotti potevano essere sostituiti con un compenso in denaro.
  • Far dir messa = ordinare una messa per il suffragio delle anime dei propri defunti.
  • Farse el segno della croce = alla mattina e alla sera, prima di dormire era diffuso farsi il segno della croce. Le donne recitavano anche le preghiere del mattino e della sera.

in chiesa.

  • Novena = nove giorni prima di alcune festi solenni: Immacolata, Natale, la Pentecoste.
  • Oficiatura = preghiere per i defunti che si commissionavano al prete, con delle offerte in denaro.
  • Ojo santo = l’olio per l’estrema unzione.
  • Onbrèla = si usava per accompagnare il prete, quando portava il Santissimo, negli spostamenti
  • Ora de adora$ion = in alcune occasioni liturgiche, c’era l’ora di adorazione del Santissimo.
  • Ottavario = settimana di preghiere. Si proponevano delle funzioni religiose con prediche, di solito tenute da frati passionari, non della stessa parrocchia.
  • Primo venerdì del mese = il primo venerdì del mese era consacrato al Sacro Cuore di Gesù. Era consigliato andare a messa. Spesso andavano anche i ragazzi, prima di andare a scuola.
  • Risponder messa = quando il chierichetto assisteva il prete nelle celebrazione della messa.
  • Terséto = dire il rosario. Il rosario si diceva nel mese di maggio, presso qualche capitello delle contrade oppure in casa del defunto, nei due giorni, precedenti la sepoltura. Quando il morto era in casa, si organizzavano anche le veglie per tutta la notte.
  • Tor le $eneri = prendere le ceneri.
  • Triduo = tre giorni di preghiera per la preparazione della festa del Corpus Domini.

Natale

Dal vangelo di san Luca

Ed ecco che pena i se ga trovà rento quel posto, la Madona la ga visto nascere el so Toseto.
Suito el lo ga infasà pian-pianelo e lo ga messo dasio nea gripia parchè non ghe géra posto da nissuna parte, dove che i gavea sercà.
Intanto on angelo xe andà dai pastori che i tendea le piegore de fora. Suito i ga ciapà paura, ma dopo na s’cianta l’angelo el ga dito:– Non stè aver paura. Son vegnesto a dirve na bea roba. Vardè che xe nato chi che ne salva. Trovarì on Toseto infasà, messo dentro na gripia. Tulì su le vostre robe e v’è anche vialtri a védarlo.
– Ciò, cossa diseo sto qua, ‘ndove voleo che ‘ndemo? – ga scomissià a dire i pastori.
Ma con i ga visto che xe vegnesto on gran ciaro li vissin, anca se gera ancora note, i ga volesto scoltare cuel che disea l’angelo.
I ciapa su e in pressa i va a Betleme e in meso ai campi, dentro na stala, i ga trovà Maria, Bepi e el Toseto.
Alora i gà capio cuel che l’angelo voleva dirghe. E la Maria la gera tuta contenta…

Mi piaceva, durante la messa di Natale, quella delle undici, quella cantata, sostituire le parole importanti del Vangelo con le parole di tutti i giorni. Mi diventava più familiare e mi immaginavo meglio quella vicenda importante.

  In quasi tutte le case si preparava il presepe. Solo pochi preparavano l’albero.

Dieci giorni prima del natale, per le strade e per le case, i bambini , in piccoli gruppi, passavano a cantar la stella, l’annuncio di una gioiosa e discreta attesa. Si fermavano davanti alla porta delle case e cantavano: Tu scendi dalle stelle… Quasi tutti davano la mancia: cinque o dieci lire. I parenti, i santoli invece erano più generosi davano venti o cinquanta lire. Quello che i bambini attendevano con ansia era però il capodanno. Sì, perché la mattina presto, appena alzati, pieni di sonno, si andava in giro per le case di quasi tutto il paese per le case per augurare: buon principio dell’anno. A mezzogiorno si tornava a casa con nelle tasche tante monete. Noi bambini non avevamo durante l’anno tanti soldi tutti per noi.

Più che Babbo Natale, da noi passava la Befana. Ricordo le carrube, le stracaganasce, il castagnaccio, i mandarini. Poi c’erano i regali: i carrettini di legno, il fucile di latta con il tappo di sughero, il traforo, le spinette, i palloni. Si andava a Messa con i giocattoli che la Befana aveva portato ed in piazza si giocava insieme.

Stùa, fornèla, cusina economica

Sostituisce il focolare  per cucinare e per riscaldare. E’ di solito in ferro o ghisa, con l’esterno smaltato.

Sopra, la piastra è divisa in due  parti. C’è un’apertura chiusa con i serci. A volte ci sono due aperture, una più grande ed una più stretta.

La stùa ha il forno e la fornela. Nel  forno si può cucinare.  Sotto il forno c’è la fornela. Nella fornela  si mettevano:  il sale, i fuminanti ed altre cose che dovevano restare in un luogo asciutto. Sotto il buso del fogo, chiusa dalla portesela, c’è il cassetin della senare.

Per accendere la stufa si adoperavano le bachetele delle fascine. Poi quando il fuoco era avviato, si chiudeva il respiro e si mettevano i pezzi di legna più grossi: i passeti e le stèle. Il fero dela fornela, era invece un ferro sagomato adoperato per rimuovere le braci e ceneri e per agganciare i serci della stua.

D’inverno, nella stufa si preparavano le bronse per la fogara, con le stèle de cassia o de moraro.

Accendere la stufa era la prima operazione della donna quando si alzava. Sopra la piastra della stufa si poteva cucinare, far bollire, tenere al caldo le pentole. Nel forno si metteva il pane vecchio e lo si faceva diventare pan biscoto. Quasi tutte le stufe avevano la cassa dell’acqua calda. Il giro dei fumi infatti, riscaldava la cassa dell’acqua. Di conseguenza c’era sempre l’acqua calda quando la stufa era accesa.

La piastra della stufa si fregava con la carta frega. La piastra diventava lucida e pulita. Ogni tanto si doveva togliere la senare e pulire il canon dela stua. Bisognava però stare attenti che la calisine non sporcasse la cusina.

Il labio  e la cana

Dove c’erano le cane con l’acqua corrente, c’era il labio. Era una vasca fatta di cemento, dove si raccoglieva l’acqua che usciva dalla cana. In alcuni labi c’era all’interno un’altra vasca più piccola, con un’apertura all’esterno. Serviva per la conservazione dei cibi: il burro, dentro una scodella di acqua, il brodo, la carne, il latte, ecc.

L’acqua esce alla temperatura costante di 12, 13 gradi costanti. E’ fresca d’estate e tiepida in inverno.

Una volta, l’acqua si  portava in casa nei seci di rame. L’acqua si prendeva dai fossi che partivano da qualche boja, posta vicino alla casa.

Circa 80 anni fa, si piantarono le prime cane. Erano tubi di ferro  che venivano ficcati nella terra alla profondità di circa 7 – 10 metri, con delle mazze e successivamente con una macchina.

L’acqua, in pressione dalla falda freatica, risorge  senza bisogno di aspirarla.

Il labio  costituiva uno dei luoghi, come la cucina e le stalla,  intorno al quale ruotava parte della vita della casa. Era la fonte per dissetarsi, era il lavandino per lavarsi il viso e le mani, era il lavandaio dentro cui lavare, sciacquare, pulire.  Era il frigorifero per conservare i cibi o tenere in fresco il vino o d’estate, qualche anguria. Era spesso il  fresco salotto intorno al quale si sedevano le persone per conversare all’ombra di qualche pianta che faceva ombra.

Sopra al labio  c’era di solito una pergola di vite o un rosaio. Vicino c’erano dei paletti su cui si appendevano rovesciati, i bandoni e le sece del latte. Poco lontano dal labio  c’era il filo su cui si stendeva la biancheria appena lavata.  Il labio  era il centro della vita della corte.

Una casa, una corte senza l’acqua, senza il labio , era una casa o una corte  a cui mancava qualcosa. Il suono dell’acqua che cadeva dalla cana, era un suono che riempiva di vita tutta la corte e  la casa.

Tésa, stala, caneva e punaro

Nelle case dei contadini c’erano sempre questi ambienti:

tésa: parte del rustico dove si metteva il fieno, la paglia e le foglie raccolte.

La stala era la parte centrale dell’attività agricola. Era il ricovero delle mucche e dei vitelli.

La caneva era la cantina, un ambiente fresco per conservare il vino, i saladi, le soppresse e tutto quello che si doveva conservare al fresco.

Il punaro era invece il ricovero delle galline.

La stalòto del màs-cio: era il ricovero del maiale.

 

Forete, nissoi, lissia.

Fino a cinquanta anni fa, gran parte delle persone non avevano molti  vestiti. Di solito si indossavano per una settimana . Si cambiavano quasi sempre al sabato o alla domenica. Il lunedì era il giorno del bucato. Non c’erano le lavatrici e non c’era l’acqua corrente in tutte le case. Per lavare si andava nei labi, dove c’era il lavandaio oppure nei fossi, sia d’inverno che d’estate. Si usava il lavèlo, un lavatoio portatile di legno, fatto a inginocchiatoio. Le donne  insaponavano la biancheria e la strofinavano con le mani o con il bruschéto, una ruvida spazzola fatta con la saggina. Ogni tanto battevano i panni sul lavèlo. Su questo strumento fondamentale per la pulizia degli indumenti, la donna compiva una delle più dure e ingrate fatiche.

La lissia si faceva circa una volta la mese e richiedeva un paio di giorni di lavoro. Si lavavano i nissoi, le forète, le canevasse e i tovajòi, cioè le lenzuola, le federe e le tovaglie.  La biancheria veniva messa nel mestèlo. Sopra veniva steso il bugarolo, una tela con tessuto molto consistente e fitto che serviva per filtrare e trattenere la cenere.

Per fare la broa si faceva bollire nella caliera una gran quantità di acqua e si versava dentro la cenere. Dopo circa un’ora si assaggiava e se era diventata acidula, era pronta. Si versava nel mestèlo. Si lasciava in bagno per un giorno e sul bugarolo, rimaneva lo strato di cenere. La broa igienizzava e rendeva bianchi i nissoi.

La biancheria veniva poi stesa su una speciale, la soga da lissia, una corda pulita usata solo per stendere i nissoi.

Stirare.

Fero da stirare

C’era in ogni casa. Era in ghisa ruvida mentre la superficie inferiore stirante, era liscia. Era alto con molti fori per lasciar respirare le bronze. C’era in alcuni una piccola griglia che lasciava cadere sotto di sé la cenere. C’era anche un altro tipo di ferro a piastra. Era di ghisa massiccia. Veniva riscaldato sulla piastra della cucina economica.

Attrezzi da lavoro della donna.

Mulinela,

Filatoio casalingo per la lana Attrezzo complicato, formato da una grossa ruota azionata a pedale che fa torcere e insieme avvolgere attorno ad un fuso, la lana.

Aspo

L’aspo era una specie di mulinela a quattro braccia disposte a croce, fatta girare da una manovella laterale. Serviva per arrotolare i gemi,  le matasse di lana, canapa, seta o altri filati.

Sgalmare, socoli, savate

Fanela, Cami$a, braghe, giacheta, tirache, gilé, tabaro,capèlo, spolvarina, cotola, traversa, siale, siarpon, scalsaroti, sgalmare, socoi, sopei, savate, noni, fasse, pane$ei, bavarolo,

bucole e ori

Quasi tutte le donne portavano le bucole, orecchini di oro che passavano in eredita da madre a figlia.

Sgalmare

Le spalmare erano calzature dalla tomaia in cuoio e dalla suola grossa in legno. Il legno teneva asciutti e caldi i piedi. Le suole erano spesso rinforzate sulla punta e sul tacco da broche o da un ferro. Camminando si faceva rumore. Per questo si diceva a qualcuno: sgalmaron.

Socole

Ciabatte con la tomaia di cuoio e la suola di legno. Era la calzatura abituale delle donne.

Socoli. Si distinguevano dalle socole perché non coprivano tutta la parte anteriore del piede, ma la cingevano solo con una fascia.

Sopei

Avevano la stessa forma delle socole, ma erano tutti in cuoio ed erano considerate da festa.

Savate

Erano ciabatte di stoffa e si usavano in casa.

Lavarse

Ci si lavava pochissimo. Se non in casi eccezionali, matrimonio, visita dal dottore, non si lavavano mai completamente tutto il corpo. Si usavano: il mestelo, la mesteleta, più piccola del mestelo, il basin. Spesso il saon, sapone, veniva fatto in casa, facendo bollire il grasso del maiale.

Nella camera c’era il lavandin, un mobiletto molto semplice con un bassin, con una broca, con uno specio.

 

 

LA LAVORAZIONE DEL PANE

Circa 60 anni fa, a Dueville, c’erano 55 forni situati presso le varie famiglie del paese. Le botteghe del pan erano invece sei. Ma i sei fornari si lamentavano perché parecchie persone si arrangiavano a prepararsi il pane. Per la buona riuscita del pane il forno doveva essere usato in continuazione, così le famiglie si accordavano sui due o tre giorni in cui avrebbero acceso il forno, per cuocere a turno il pane per la settimana..

Non tutti coloro che cucinavano il pane in casa, lo sapevano fare bene. C’erano alcune famiglie che lo preparavano veramente come i fornai. La maggior parte cucinavano sì il pane, ma era a volte troppo duro o a volte, poco cotto.

Dopo aver passata la pasta con la gramola, si facevano i pastoni, grossi bigoli che, a loro volta, con abile e precisa  mossa dei lavoranti, venivano spezzettati in tanti tochi. I fornai più bravi riuscivano a preparare i tochi quasi tutti dello stesso peso. I tochi erano poi pronti per essere fati sù. Veniva cioè data loro la forma.

Le forme più usate erano, oltre alle ciope: i montasù; ( pasta arrotolata ) le piave e le piavete; ( 2 giri di pasta che veniva tagliata poi in due ) le rosete; le pinse; le risete. 

La pasta di pane, già fatta sù, per farla lievitare, veniva posta su delle tavole. Le tavole venivano posate sulla cajciara, una rastrelliera  che poteva sostenere le tavole. Nel caso specifico di Dueville, la pasta del pane veniva fatta lievitare nella stua, un locale posto al primo piano, sopra il forno. Era un locale sempre caldo, riscaldato dal forno sottostante. C’erano delle cajciare anche nel locale del forno.

Un altro attrezzo usato era il cavalletto. Il cavalletto era usato per sostenere la tavola con sopra il pane lievitato e pronto per essere infornato.  Si posava un’estremità della tavola  sul forno e l’altra estremità sul cavalletto.

Il riso

Già nel 1665 quasi il 3% dei terreni coltivati a Vivaro era destinato alla coltura del riso. Nel 1809 quasi il 10% dei terreni era destinato a risaia. Toponimi come via Risara e località risara permangono ancora nelle mappe.

Per l’abbondanza di acqua, la coltivazione di riso nella zona di Vivaro e in parte di Povolaro continuò fino alla seconda guerra.

La presenza delle risaie provocava però delle proteste da parte dei cittadini per la permanenza di acqua stagnante ed il pericolo di diffusione di malattie come la malaria.

 

Il cognome: un mistero dal passato.

Il cognome indica la famiglia, il nome l’individuo. Nel Seicento si cominciarono a scrivere nei registri parrocchiali tre avvenimenti importanti della vita di una persona: il parroco scriveva in tre distinti registri,  battesimo, il matrimonio e la morte. Si cominciò quindi a usare il nome della famiglia per distinguere le persone della comunità. I registri parrocchiali sono gli unici documenti scritti attraverso i quali si può ricostruire la storia della nostra famiglia. Nel libro della Storia di Dueville, abbiamo ricostruito la storia di molte famiglie di Dueville.

Gran parte dei cognomi derivano:

dai nomi propri: Antoni, Antonelli, De Antoni, Berti, Bertuzzo, Biasi, De Paoli, De Francesco, Franceschi, Lorenzi, Lorenzin, Paoletto, Pierantoni, Stefani, Tonini, Valerio, ecc.

da località di provenienza: Vicentini, Veronesi, Trevisan, Padoan, Milan, Bassan, Trentin, Fiorentin, Dalla Costa, Dal Lago, ecc;

da mestieri: Barbieri, Battilana, Cappellari, Carta, Castegnaro, Dal Ferro, Fabris, Farina, Lanaro, Maglio, Marangoni, Munaretto, Muraro, Salin, Sartori, ecc;

da caratteristiche fisiche o morali: Basso, Bianchi, Brun, Rossi, Moro, Moretto, Piccoli, Valente,

Il Leone di San Marco sul campanile

Nella notte del 20 ottobre 1714 il vecchio campanile di Dueville crollava rovinosamente a terra. Costruito alla fine del Quattrocento, dai nobili Monza, rappresentava il loro potere feudale.

I Monza volevano ricostruirlo e porre  il loro stemma,  come era in quello crollato. Ma i capifamiglia si opposero. La lapide ci ricorda come è finito il contrasto: la comunità di Dueville costruì il campanile a proprie spese e al posto dello stemma dei Monza, aveva posto quello della Serenissima. Lo Stato di Venezia  fu lo Stato economicamente più potente di tutta Europa, per più secoli.  L’esito della vicenda  è scolpito nello stemma: Campanile sumptibus publicis ac charitate habitantium communitas duarum villarum edificandum curavit.

Cento anni prima, Francesco Rizzolo era il rappresentante  della convicinia, della comunità di Dueville nei contrasti con la famiglia Monza. Nel 1627 fu ucciso dai sicari dei Monza. Egli era il “il più esperto di ogni altro del suo Comun” a far valere le ragioni della Comunità. Venezia poneva fine alla controversia, assegnando alla Comunità quei diritti che sino ad allora erano stati goduti dai feudatari. Per ricordarlo, per più di duecento  anni,  la Comunità faceva celebrare ogni anno, delle messe.

La Comunità di Dueville era retta dall’assemblea dei capifamiglia, definita convicinia. La convicinia era un sistema di governo delle Comunità, in uso in tutto lo stato della Repubblica Veneta, per centinaia di anni. Era la democrazia diretta di tutte le famiglie del paese.

 

 

Villa Monza, Dueville

L’attuale Municipio di Dueville fu all’inizio villa dei Monza. Essa costituisce la memoria più evidente dell’antica presenza dei nobili Monza. I Monza acquistarono il feudo di Dueville nel 1402 e rimasero protagonisti, per quasi 500 anni, della storia del nostro paese, con alterne vicende, fino al 1872 quando la villa fu acquistata dal Comune.

I Monza soggiornavano a Dueville per periodi variabili. La loro dimora era infatti a Vicenza. Ciascun ramo della famiglia aveva però, nei possedimenti di Dueville dei palazzi: villino Maccà, palazzo e barchessa in via Roma, casa Ramina ecc.

La villa fu commissionata dai fratelli Paolo e Carlo figli di Muzio Monza, nel 1715. Si attribuisce il progetto all’architetto Francesco Muttoni. La villa è di tre piani e la facciata si conclude con un frontone, ornato ai vertici da tre statue, della bottega del Marinali e rappresentano la Prosperità al centro, la Temperanza a sinistra e l’Abbondanza a destra, a significare i valori del luogo e dei suoi Signori. Oltre la gradinata si apre il portico, animato da sei colonne ioniche: due singole alle estremità e due binate al mezzo.

NON SOLO PER I SCHEI

E’ abbastanza diffusa l’opinione che nel NORDEST, l’unico valore sia il denaro. E’ un’opinione che banalizza e semplifica l’analisi della mentalità e della cultura veneta.

Non è un caso che il Veneto sia considerato il Giappone d’Italia. A  guardare bene sono gli stessi territori su cui per 500 anni, la Repubblica  Veneta ha governato con illuminata equità. L’attuale espansione economica, viene da lontano. Non è un miracolo effimero e recente. Fa parte della mentalità imprenditoriale della gente veneta. E’ una mentalità che mette ai primi posti della scala dei valori il saper fare, il lavoro, la socialità, il darsi da fare, essere indipendente. Il Veneto è pieno di vitalità. Questo ha portato SCHEI, è stata una conseguenza, non è il motore che muovere tutto. Non si lavora solo per i SCHEI! Ci sono altre motivazioni ed altri stimoli. Si è confuso cioè le conseguenze, con la causa.

Dueville, paese in provincia di Vicenza, nel cuore del Veneto è una comunità che lavora. Da sempre. Fin dal 1500 la ricchezza di acqua favorì il lavoro dei campi e la nascita di mulini, segherie e una cartiera. C’erano inoltre artigiani che lavoravano il ferro ed il legno.

Nel Seicento e nel Settecento a Povolaro predominava la media e la piccola proprietà. Era assente la grande proprietà che occupava invece i due terzi della superficie di Vivaro, con i nobili Da Porto e oltre la metà della superficie di Dueville, con i nobili Monza. I piccoli proprietari a Povolaro, si sono cioè meglio difesi dalla penetrazione fondiaria dei nobili e successivamente dalla ricca borghesia.

Per arrivare agli anni più recenti,  dal censimento del  1911,  si può rilevare che a Dueville c’erano 5.500 abitanti. C’era la fabbrica di Gaetano Rossi che occupava 600 operai. La fabbrica di Giuseppe Roi con 35 operai, la fornace Tagliaferro impiegava 50 operai. Accanto a queste “ grandi “ industrie, c’erano altre fabbriche come la cartiera; una fabbrica di calce, 2 latterie sociali, 6 mulini, una segheria, due officine meccaniche che impiegavano in tutto 80 operai.

La strada Marosticana e la linea ferroviaria Vicenza –  Bassano favorirono lo sviluppo di varie attività commerciali ed il sorgere di differenti negozi.

Anche nel censimento del 1929 si conferma la presenza della piccola proprietà e delle piccole aziende  meccaniche, della calce, di  tre latterie e dei mulini.

Nel dopoguerra accanto alle figure dei contadini – operai, che facevano in pratica un doppio lavoro e mettevano da parte quanto era  possibile per costruirsi la casa,  cominciavano a farsi strada altre figure. Di sera, nei giorni festivi, in stanze disabitate, sotto il portico o in stalla, i futuri artigiani e industriali, si portavano a casa il lavoro dalle loro ditte e non appena avevano le possibilità osavano ”  mettersi in proprio “. Si affrancavano cioè dai loro padroni e dopo aver appreso l’arte, davano vita alle varie aziende e laboratori, così numerosi  nel nostro Comune.

L’Artigianato a Dueville è costituito da piccole aziende, 378 imprese artigianali che formano il nucleo più consistente di tutta la provincia di Vicenza. Nella zona di Povolaro prevale la lavorazione della pelle e delle borsette. In tutto il Comune sono presenti inoltre imprese edili, carpenterie metalliche, falegnami e altre diverse attività artigianali.

Schede varie

L’ACQUEDOTTO DI PADOVA

Padova cominciò a pensare ad un proprio acquedotto circa 150 anni fa. Era allora una città di circa 75.000 abitanti. Si vagliarono diverse località come Fontaniva, Oliero, Camisano e Dueville che godevano di acque di sorgente potabili. Dopo un ventennio di dibattiti la scelta cadde su Dueville. L’acqua era più potabile e più abbondante.
L’acquedotto fu inaugurato nel 1888. Le opere furono costituite da una vasca di raccolta, da pozzi e da una lunga condotta da Dueville a Padova. Questa condotta, chiamata canaletta, è alta 1,10 m, ha una sezione di 70 cm ed è lunga 40 km. La canaletta non trasporta l’acqua in pressione, ma a pelo libero. Nel 1945 fu costruita una seconda condotta che trasportava l’acqua di una ventina di pozzi posti a nord di Vicenza. Mentre la prima condotta seguiva la Statale VI-PD, per la seconda fu seguita la linea ferroviaria. Le due condotte possono portare complessivamente 1.400 litri al secondo, limite imposto dal Piano Nazionale degli Acquedotti. L’acquedotto di Padova serve una popolazione di circa 300.000 abitanti. L’acqua del sottosuolo di Dueville è di ottima qualità e non ha niente da invidiare a tante acque minerali.

I MONZA
La famiglia Monza non faceva parte dell’aristocrazia vicentina e non era neppure originaria della pianura veneta. Il padre di Alberto, era giunto a Vicenza da Milano al seguito dei Visconti, le cui truppe vittoriose sugli Scaligeri, tennero Vicenza fino al 1404, prima di soccombere all’avanzata veneziana. Pur mantenendo stretti contatti con il milanese, i Monza si stabilirono nella città Berica, avviando lucrosi commerci ed estendendo il loro raggio di azione fino a Venezia.
Nel 1396 Alberto riuscì ad ottenere dalla Serenissima la cittadinanza, con il diritto molto ambito, di commerciare sulla piazza di Rialto ed entrare così nel giro del grande commercio mondiale di Venezia. Quasi subito i Monza sentirono la necessità di diversificare le attività economiche e l’impiego dei capitali, rivolgendosi in particolare verso la proprietà terriera e i beni fondiari. Con l’acquisto di Dueville, i Monza si impegnarono nella conduzione del fondo, ma la loro attività principale rimanevano i commerci specialmente di tessuti e lane il cui sbocco principale restava il porto veneziano, dove Alberto possedeva un deposito per le mercanzie.
Altri membri dei Monza erano notai, proprietari terrieri, prestatori di danaro, investitori, sedevano nel Gran Consiglio di Vicenza ed erano tra le prime dieci famiglie più importanti e ricche di Vicenza. I Monza continuavano a Vivere a Vicenza per mantenere stretti contatti con le famiglie più potenti. Vivere in città era l’unico modo per distinguersi ed avere quegli onori che la vita in un paese non era in grado di assicurare. Se la residenza dei Monza era a Vicenza, molti di loro passavano buona parte

dell’anno a Dueville, dove meglio potevano occuparsi dei propri possedimenti. Ogni ramo della famiglia Monza possedeva a Dueville almeno una casa dalle caratteristiche più o meno lussuose, che consentiva un confortevole soggiorno ai proprietari.
A Dueville i Monza avevano esercitato tutto il loro potere. Molti privilegi e diritti li aveva reso, a tutti gli effetti signori del paese, con una discrezionalità di potere che trovava pochi paragoni nel vicentino: i Bissari, a Costabissara, i Traverso ad Alonte, e i Pisani a Bagnolo.
Con l’acquisto del villaggio, i Monza avevano acquisito una serie di diritti: l’amministrazione della giustizia fino a 5 lire, la facoltà di redigere gli estimi del comune, con le conseguenti tasse da pagare; l’elezione dei rappresentanti della comunità; i diritti di caccia e pesca e le decime, cioè la decima parte dei prodotti della terra. Il ricavato di tutte queste rendite non veniva però speso per la comunità, ma costituiva il reddito della famiglia Monza. All’inizio i Monza riuscirono a respingere gli attacchi che la comunità portava per affrancarsi da questo dominio. Solo nel Seicento, con la politica della Repubblica di Venezia che favoriva le comunità nei contrasti con i nobili, la popolazione di Dueville riuscì a togliere ai Monza alcuni privilegi. I Monza tentarono tutte le vie legali possibili e addirittura non disdegnarono di colpire nel sangue il tentativo di libertà.
Alcuni membri della famiglia, nel 1627, assoldarono dei sicari e uccisero Francesco Rizzolo, rappresentante del comune. Questo omicidio spostò l’equilibrio delle forze in favore della comunità: la mano della giustizia veneziana si abbatté pesantemente sui colpevoli, che furono subito identificati e processati dai rettori di Vicenza e furono condannati a 10 anni di relegazione a Zara.

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VIVARO

Uno dei primi documenti in cui si nomina Vivaro è l’atto di donazione, da parte dei Conti di Vivaro, della Chiesa di S.Maria Etiopissa alla Abbazia di Pomposa. Con tale donazione i Da Vivaro facilitarono l’arrivo dei monaci di S.Benedetto a Vivaro. La donazione della chiesa aveva un duplice motivo: da una parte favorire la pietà religiosa per garantire ai nobili Vivaresi preghiere per sé e per la famiglia, dall’altra per sviluppare l’economia agricola.

Nel 1300 tutto il territorio di Vivaro entrò a fare parte delle vaste proprietà dei nobili Nievo. Successivamente i beni di Vivaro furono portati alla famiglia Porto come possesso personale di Elisabetta da Nievo, sposata con Lunardo Porto.

Oltre il 90% del terreno di Vivaro apparteneva alla famiglia Da Porto. I Da Porto inoltre, avevano vastissimi possedimenti in città di Vicenza ed in tutta la provincia.

L’imperatore Carlo V con diploma del 4 dicembre 1532 eresse in contea il castello di Vivaro, concedendo il titolo di “conti di Vivaro” a tutti i rami e discendenti della famiglia Da Porto e la possibilità di fregiarsi del simbolo dell’aquila bifronte nel proprio stemma.

Di proprietà dei Da Porto a Vivaro, la villa Da Porto-Casarotto; la villa Da Porto-Pedrotti; la cartiera, la ca’ Binotto in viale Vicenza e ca’ Cecchini, dopo il ponte sul Bacchiglione.

Dal 1404, Vicenza e gran parte delle città venete entrarono a far parte della Repubblica di Venezia. Per oltre 500 anni l’organizzazione statale della Repubblica di S.Marco, diede un’impronta indelebile alle genti venete, caratterizzandole dalle altre popolazione italiane, per cultura, mentalità e ricchezza.

Per 10 anni, fino al 1815, il Veneto fu poi governato dai Francesi e per 50 anni, fece parte del Regno Lombardo-Veneto, sotto il dominio austriaco. Dal 1866 anche il Veneto entrò a far parte del regno d’Italia.

La Chiesa di Vivaro

La chiesa di Vivaro non è un’antica cappella della pieve di Dueville, ma una cappella dell’antica abbazia di S. Maria Etiopissa. Il primo documento in cui risulta la chiesa di Vivaro con funzioni parrocchiali, risale al 1462. Da allora la chiesa di Vivaro fu sempre retta da un parroco. Vivaro si trova negli elenchi dei primi Vicariati Foranei come parrocchia autonoma.

Quasi certamente a Vivaro esisteva una piccola chiesa già dopo il Mille. Di sicuro la chiesa fu ricostruita e rifatta più volte. Nel 1660 la chiesa venne rifatta. In una mappa di fine Seicento la chiesa è disegnata con la facciata orientata verso ovest, verso il Bacchiglione. Duecento anni dopo, nel 1862 la chiesa fu demolita perchè cadente e si cominciò a costruire la nuova chiesa. La costruzione durò circa sei anni e nel 1868 fu celebrata la solenne prima messa nella nuova chiesa.

I lavori continuarono anche negli anni successivi. Il soffitto fu decorato nel 1887 e nel 1898 fu completata la facciata. Nel 1894 s’iniziò anche la costruzione del campanile che fu inaugurato tre anni dopo.

La chiesa come appare adesso, fu costruita a fine secolo.

Nel 1944, durante la guerra, fu rifatto l’altare maggiore al posto di quello vecchio che era di legno e di cotto. Il 16 luglio del 1944 la chiesa fu dedicata ufficialmente ai SS. Girolamo e Bernardino dal vescovo mons. Carlo Zinato.

La popolazione di Vivaro si è sempre identificata con la parrocchia e con la chiesa. I confini attuali delle varie frazioni con il capoluogo non sono confini comunali o amministrativi, ma sono i confini delle varie parrocchie. I parroci segnavano le vie che erano di competenza delle loro chiese e questi confini si sono tramandati ai nostri giorni. Fino a trent’anni fa a Dueville c’erano tre parrocchie: Dueville, Povolaro e Vivaro. Solo recentemente fu costituita la parrocchia di Passo di Riva.

Vivaro è quindi una parrocchia antica. I suoi abitanti s’identificano con essa e ci tengono ad appartenere alla loro Comunità. La chiesa insieme alla scuola, svolge anche l’importante funzione d’aggregazione e d’identificazione. Vivaro è una Comunità piccola, ma desiderosa di mantenere una propria identità e conservare le proprie origini, senza però chiudersi in se stessa.

 

Lanerossi

Lanerossi: nel 1904 la Società del lanificio Rossi di Schio chiese al comune di Dueville di acquistare un terreno di proprietà comunale per stabilirvi un’industria tessile. La società Rossi scelse Dueville anche per gli interventi dei fratelli Busnelli: Gaspare sindaco di Dueville e Gaetano che abitava a Schio era amico di Alessandro Rossi ed era dirigente nella fabbrica. La fabbrica Lanerossi di Dueville contribuì in maniera determinante allo sviluppo economico del paese. Lavoravano anche 1.300 persone. Fino agli anni Settanta era caratteristica la figura dell’operaio – contadino, essendo la piccola proprietà agricola molto diffuso. Si lavorava in fabbrica e nel tempo libero dal lavoro, si lavoravano i piccoli appezzamenti di proprietà.

Considerazioni sull’area Lanerossi.

Ritengo che sia importante ricordare, in riferimento all’area Lanerossi, la figura e la filosofia di Alessandro Rossi. Figura illuminata di industriale che affermava:

Quale è la differenza tra me e gli operai? L’educazione migliore e i panni meno grossolani che indossiamo e null’altro. Per il resto anime immortali, come noi. Lavoriamo d’intelligenza e di braccio, siamo tutti operai, soldati del lavoro, che facciamo insieme questo tragitto nel mondo, per preparare un mondo migliore.”

Dalla testimonianza di Gaetano Busnelli:

“ …Il buon operaio fu per lui qualche cosa di lui stesso. Educarlo bravo, felice, furono ognora il suo studio e sua incessante occupazione. Di qui: gli asili d’infanzia, le scuole, le sale operaie, le biblioteche, le casse di risparmio, il teatro e soprattutto facendo brillare gli occhi dell’onesto operai:  con la costruzione di una casetta e di un orticello che gli appartenessero egli lo abituò al risparmio…”

L’area Lanerossi non è solo la fabbrica. Intorno c’erano le case per gli operai e per gli impiegati, gli asili, i negozi  e tutto quello che potesse essere utile per coloro che vi lavoravano.

Un progetto di archeologia industriale dovrebbe mettere in risalto anche questo aspetto. Il resto sono muri scrostati, edifici anonimi, simili a tanti altri che non raccontano. Non recuperiamo lo spirito che ha animato quel periodo e caratterizzato il nostro paese ed il vicentino. Non recuperiamo solo pietre, ma non l’anima e la nostra

 

La piazza

 

Da circa 600 anni, da quando cioè si possono avere dei documenti che indicano il territorio, la piazza di Dueville ha mantenuto il suo impianto. Forse l’unico edificio che non si può più ritrovare è la vecchia Casa del Comune.

E’ significativo che il nuovo potere politico rappresentato dall’amministrazione comunale di fine Ottocento, acquisisca dal vecchio potere, quello feudale dei nobili Monza, il loro palazzo.

La chiesa, il luogo religioso e il palazzo dei Monza prima e Municipio dopo, luoghi del potere e della vita civile, hanno segnato e segnano i fatti più importanti della vita individuale o sociale. In chiesa, il battesimo, il matrimonio e la morte, le tappe più rilevanti della vita di una persona, venivano condivise dagli altri membri della comunità. Da fatti personali, diventavano pubblici, cioè partecipati dagli altri.

Pubblici erano anche gli atti che avvenivano prima nella casa del comune e poi nel Municipio.

E la vita quotidiana scorreva intorno alla piazza. Il mercato, le botteghe, le osterie erano luoghi di incontro e di scambi.

Tutti i membri della comunità passavano per le  piazze. Magari solo alla domenica, ma era l’unico modo per dimostrare e farsi riconoscere come membri della comunità.

I maronari e i platani

Della piazza di Dueville mi ricordo in particolare i grossi platani e i maronari. Senza le macchine, si levavano in alto e mi sembravano veramente maestosi.

Nella piazza c’erano negli anno ’50 e ’60 due chioschi che vendevano frutta, verdura e furi$i: Lelio Altin e Vulcano.

Le strade

Come le chiese, anche le strade del territorio di Dueville furono costruite con il lavoro di tutti. Tutti i capifamiglia dovevano contribuire poi anche al loro mantenimento. In primavera si dovevano chiudere le buche e riparare qualche ponte. Ma era un compito di tutti. Ora l’amministrazione comunale si è sostituita alla comunità. Al Comune spetta infatti l’onere e l’impegno di aprire nuove strade e mantenere quelle esistenti.

La Grande Guerra

“Nel 1916, l’Austria con abile strategia, in un giorno e poco più, avanzava con ingenti forze fino al Pasubio. Prese e bombardò Asiago, fè suo Tonezza, Posina, Rotzo, Roana, l’altipiano dei Sette comuni. Gli abitanti di quei disgraziati paesi, dovettero esulare.”

Molti profughi, oltre un migliaio si erano agglomerati a Dueville. Numerose erano anche le truppe accantonate, circa 2000. Fu installato nel nuovo edificio scolastico del centro, un ospedale da campo inglese, con circa 230 posti letto.

Cinema comunale

Il cinema Comunale era nel posto dove adesso sorge il Centro Comunitario. Era un cinema parrocchiale. Si proiettavano solo i film per famiglie e bambini. Nell’altro cinema, il cinema Centrale invece, si proiettavano anche film per adulti. Film per adulti erano considerati quelli che ora vedono i bambini. D’estate c’era il cinema all’aperto.

 Senza radici

Venerdì 13 febbraio 2015, in occasione della Borsa Internazionale del Turismo di Milano,  sono state presentate Le Vie Longobarde d’Europa, per proporre  pacchetti  turistici integrati comprensivi di accoglienza, percorsi culturali, nella natura ed enogastronomici.

E subito il mio pensiero è andato alla necropoli longobarda di Dueville.  Sono andato a rileggere una lettera che ho scritto circa venti anni fa a tutti i consiglieri, sia di maggioranza che di minoranza. La ripresento nella speranza che si possa ancora cambiare. C’è bisogno però della sensibilità di tante persone.

Passata l’iniziale curiosità e le promesse di fare qualcosa, Dueville non sembra accorgersi e interessarsi dell’importante ritrovamento della necropoli longobarda. L’Amministrazione Comunale sembra inerte ed indifferente. Gran parte dei reperti, esclusi quelli restaurati ed esposti nella mostra Restituzioni 95 a Vicenza, giacciono in qualche scantinato. A Dueville non è rimasto niente e poco si sa di quello che è stato recuperato.

Chi passa ora per la necropoli di Dueville, non può non provare un senso di sconcerto e di desolazione. Tutta l’area è circondata da fabbricati di quattro o cinque piani. Parte dell’area di scavo è stata riempita con materiale e vi scorre una strada. A destra e a sinistra sono ancora visibili le buche delle sepolture, fra le erbe incolte. Non esiste niente, né un cartello, né un’indicazione di sorta. Fra poco tutto sarà spianato e non ci sarà nessuna testimonianza di quella che fu una delle più considerevoli necropoli longobarde. Fra alcuni anni si troveranno riferimenti forse nei libri di storia, ma a Dueville non si troverà più niente.

Basterebbe poco! Un parco-giardino nell’area sacra della necropoli, pannelli che ricostruiscano la storia, dei restauri d’alcune tombe indicative; parte degli oggetti restaurati esposti in qualche vetrina in Municipio o in qualche spazio nelle scuole. Questo per non dimenticare, per non perdere le radici di Dueville, per mantenere la propria identità.

Sembra che a gran parte della popolazione di Dueville non interessi la propria storia. Non intendo la storia fatta di date, di località, di battaglie o di re, ma la storia degli individui che hanno vissuto nei luoghi a noi ora familiari, che hanno percorso le strade che noi percorriamo, che hanno abitato nei luoghi dove adesso sorgono le nostre abitazioni. Conoscere la storia per conoscere gli uomini, per cercare di capire come si comportavano, come reagivano, cosa li spingeva a compiere determinate azioni.  Noi siamo quello che eravamo.

Come per la necropoli, anche altre testimonianze del paese forse scompariranno nella nebbia dell’indifferenza. La cartiera, la fabbrica Lanerossi e altri significativi edifici, che caratterizzano ed identificano il paese di Dueville, si stanno sgretolando.

IL NOME DUEVILLE

Perché in nostro paese si chiama Dueville?

Interessante notare, con riferimento in particolare a Dueville, che i Longobardi si sono spesso sorprendentemente insediati vicini ai centri della popolazione autoctona, talvolta distanti solo poche centinaia di metri.

Probabilmente questo duplice insediamento, veneto – romano e successivamente longobardo, questi due centri alquanto vicini, ma distinti, possono spiegare il toponimo Due-Ville. Due centri identificabili con questi due vicini nuclei, hanno dunque caratterizzato il nostro paese determinandone il nome.